NullaOsta
di Gigliola Foschi
«30 ans après Berlin LE MONDE S’EMMURE» titolava a piena pagina il quotidiano Libération nel novembre 2019. Eh sì, se con la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, si sperava e si pensava di essere entrati in una nuova era segnata dalla libertà, di fatto in questi trent’anni le barriere e i muri si sono moltiplicati e si stanno sempre più costruendo in tutto il pianeta, dagli USA all’Europa, al Medio Oriente… Così Beba Stoppani – dopo avere concentrato la sua attenzione, con la serie 0° a 5000 mt, sul problema del cambiamento climatico e sul drammatico scioglimento dei ghiacciai – tocca ora, con la serie NullaOsta, un altro tema centrale della realtà contemporanea: i muri che delimitano i confini come alte barriere invalicabili. In questo caso l’autrice sceglie quale luogo simbolico d’indagine il Muro di Tijuana, al confine tra USA e Messico: una barriera che dalla terra s’inoltra nel mare come una cupa ombra nera. Chiamato in Messico il “Muro della Vergogna”, la sua costruzione ebbe inizio già nel 1990, durante la presidenza di George H. W. Bush, per poi estendersi progressivamente nell’interno lungo la frontiera con l’Arizona, il Nuovo Messico e il Texas. In sintonia con altri suoi progetti, la ricerca di questa autrice sa coniugare linguaggi visivi diversi, fino a creare una sorta di composizione musicale giocata su più toni e livelli, intersezioni e intervalli. Mai ideologico, ma sempre sostenuto da un atteggiamento carico di pietas, il suo lavoro ci pone per prima cosa davanti al muro stesso, offrendolo alla vista come un dato di fatto muto, duro e intenso. Una presenza carica di una forza spietata, ma anche segnata dalla creatività dirompente dei molti messicani, e non solo, che si sono impegnati a trasformarlo in un tavolozza di scritte e colori accesi, festoni e stoffe altrettanto colorate. A partire dal 2016, infatti, l’artista messicano Enrique Chiu – interpretando letteralmente e ironicamente il messaggio di Trump sulla necessità di costruire un “grande, bellissimo muro” – ha invitato quasi 4000 volontari, tutti animati dal desiderio vitale di un mondo senza barriere, a decorare liberamente il muro con disegni, scritti, messaggi, ma anche con i molti, troppi nomi dei migranti morti nel tentativo di entrare negli Stati Uniti. Quello che quindi Beba Stoppani ci mostra è al contempo una barriera crudele e un “bel” muro simbolo di speranza, di una fratellanza che non muore mai, e che può essere riattivata dall’arte, dai gesti collettivi di migliaia di persone volenterose, armate solo di pennelli e colori. Gesti di auspicio di un mundo sin muros, che l’autrice a sua volta riprende e rilancia attraverso alcune opere in cui lei stessa fora minuziosamente con spilli la superficie delle sue immagini per poi retro-illuminarle, come a voler indicare che il muro può essere traforato e divenire permeabile, e che dietro ad esso la luce può essere quella della speranza, non solo quella ostile dei sensori elettronici e di visione notturna usati dalla polizia statunitense di frontiera. Dal tenersi a distanza per vedere (e quindi fotografare, documentare) l’autrice passa dunque al farsi vicina per agire: è infatti, la sua, una pratica artistica basata sulla prossimità, su una partecipazione fisica, emozionale e non solo visiva. Si tratta di un messaggio positivo che però l’autrice giustamente controbilancia con altre opere di segno contrario, perché il sogno di un mondo senza muri di fatto si scontra contro rotoli di filo spinato, armati di taglienti lame a rasoio in acciaio, e con sistemi di vigilanza effettuati tramite droni o elicotteri armati. Ecco allora che da alcune sue immagini di questo muro osservato da vicino, lei fa materialmente sporgere lamette affilate simili a quelle delle “concertine”: grazioso termine tecnico per indicare l’assai meno gentile filo spinato elicoidale, in uso presso le forze NATO, che con la sua efficienza “deterrente” sta diffondendosi ovunque grazie al superiore grado di “invalicabilità” di cui si vanta (viene così pubblicizzato nei siti internet). Le immagini di Beba Stoppani aprono quindi la fotografia alla tridimensionalità, escono da una logica puramente visiva, spinte dalla necessità di creare nuove esperienze di coscienza sociale. Quelle create da lei, dunque, sono opere estetiche ma soprattutto etiche. E la sua tensione etica nasce dalla consapevolezza di doversi soffermare, avvicinarsi , “sentire” con la totalità di se stessa gli eventi drammatici della nostra epoca: eventi che instancabilmente e disordinatamente si accavallano gli uni sugli altri e che rischiano presto di scivolare via dalla memoria e dalla coscienza. A meno che non vi sia qualcuno che – come Beba Stoppani – ci invita a soffermarci, a ricordare, a prendere coscienza, magari ad agire…